Nell’anno della COP26 e del G20, il dibattito sulla sostenibilità ha fatto passi avanti. Ma nel 2022 si passerà dalle parole ai fatti con l’entrata in vigore della nota (e discussa) Tassonomia, chiamata a classificare le attività economiche in funzione del relativo grado di sostenibilità. Si tratta di un passaggio decisivo per la decarbonizzazione della nostra economia, che cambierà il contesto competitivo per le imprese.
Detta in altri termini: le aziende, se già non l’hanno fatto, ora saranno costrette a dotarsi di una strategia climatica che mitighi i rischi e amplifichi le opportunità, sia nel breve che nel lungo termine. Strategia che deve poi declinarsi nei necessari strumenti attuativi, in termini di metriche, processi, obiettivi, operazioni, fino alla rendicontazione, cui sono interessati tutti gli stakeholder, a partire dagli investitori.
Secondo lo studio di Deloitte Italia “Il climate change nell’informativa finanziaria redatta dalle società quotate in Italia”, le società del nostro Paese manifestano una crescente consapevolezza sul tema del cambiamento climatico: il 53 per cento delle relazioni finanziarie annuali 2020 delle società quotate sul MTA, infatti, contiene informazioni sul clima – un trend in crescita dell’11 per cento rispetto allo scorso anno. Spesso, però, si tratta di informazioni di contesto o di mercato, in larga misura qualitative, riflesse solo in parte sulla gestione dei rischi, ancor meno sulla strategia e quasi per nulla sulle poste iscritte in bilancio.
Altre indagini in passato erano giunte a considerazioni analoghe. Infatti, mentre cominciano a farsi strada sia il ricorso ai crediti volontari per la compensazione delle emissioni GHG, sia l’integrazione degli obiettivi climatici nelle remunerazioni dei vertici aziendali, ancora scarseggiano informazioni basilari quali le analisi di scenario, la quantificazione degli impatti finanziari, il ricorso al carbon pricing. Anche nelle metriche devono essere fatti passi avanti, soprattutto sulla misura delle emissioni Scope 3, sulla certificazione degli inventari di GHG, sull’assunzione di target science-based e sull’integrazione della catena di fornitura.
In questa fase di assestamento, si registrano casi piuttosto evidenti di green marketing, per non dire di greenwashing: una tendenza che potrebbe persino accentuarsi nei prossimi mesi, ma che è destinata a scontrarsi con l’azione legislativa e regolatoria e con la maggiore consapevolezza dei consumatori.
Per le imprese, dunque, c’è parecchio lavoro da fare.
Come si diceva all’inizio, va anzi tutto stabilito un legame più stretto tra gli obiettivi climatici di breve e lungo termine e la strategia aziendale, cui far conseguire una coerente allocazione del capitale. Le imprese, poi, devono avviare una riflessione sul purpose aziendale in modo sistematico e strutturato e aprirsi a un confronto approfondito con tutti gli stakeholder. Devono anche riconoscere che le competenze dei board e dei manager vanno arricchite sotto questi profili, che la struttura organizzativa merita un profondo ripensamento, che i processi di rendicontazione climatica vanno strutturati come quelli economico-finanziari, che l’ERM non può prescindere dalla presa in carico delle insorgenti tematiche ESG.
Tutto ciò porterà ad accelerare sull’innovazione di prodotto e di processo, aggiornando sia il modello di business che il rapporto tra impresa e società. Prima si farà tutto ciò, più facilmente si consoliderà la posizione della propria impresa nella nuova arena competitiva.